“Venne a me l’amore e si trasformò in sangue nelle mie arterie.
Ciò che rimane di me è un nome, il resto è Lui, Dio soltanto.”
Bektashi respcto. Si apriva con questa frase il viaggio di un anno fa in Kosovo, durante un incontro fortuito e assolutamente non sospetto del primo giorno di stordimento balcanico. Nella città di Kruja, vicino al discutibile castello della famiglia IskenderBeg, un uomo con un largo maglione ci invitava ad entrare in una sala dalle pareti verdi ricoperta di tappeti. Nel suo spiegarci chi fosse e dove ci trovassimo intercalava continuamente la frase “Bektashi respecto”. L’ha detta cosi tante volte che ben presto, durante il resto del viaggio, sarebbe diventata qualcosa di comico da ripetere nell’ambito goliardico del gruppo. All’epoca l’unica informazione che riuscii ad ottenere fu che i Bektashi sono una minoranza musulmana, di derivazione sufi.
La grande fioritura culturale degli ordini sufi, la loro poesia e la loro musica appartengono al passato, ma i loro riti si sono mantenuti vivi ancora oggi. La mistica sufi affonda le proprie radici tra i popoli nomadi della steppa. Credenti ‘on the road’, sono aperti nei confronti di tutte le religioni, come cercava di spiegare l’insistente “Bektashi respecto”. I sufi praticano la preghiera in movimento, fanno voto di povertà e si avvicinano a dio non mortificando il corpo ma attraverso il cibo, la danza e la gioia
Il viaggio di quest’anno invece prevede un incontro non casuale proprio con i Bektashi.
So qualcosa in più su di loro: l’ordine vero e proprio nasce alla fine del XV secolo, più di due secoli dopo la morte di Haji Bektash Veli, che ne è il fondatore. L’ordine ha inclinazioni marcatamente sciite. Recita infatti un poeta bektashi:
Ta ezel bezminden ikrâr eyliyen, şi’îleriz.
Bunda ol ikrâri tekrâr eyliyen, şi’îleriz.
Dal momento in cui l’eternità si è raccolta, siamo sciiti.
Qui, rendo ancora una volta questa confessione, siamo sciiti.
Il pensiero bektashi si riassume così: Ali Ibn Abi Talib, il genero del profeta Muhammad, occupa una posizione predominante nella loro spiritualità. Ali è visto come l’immagine speculare del divino, è il rivelatore dell’’esoterico’ Corano, mentre il profeta è visto come il veicolo mediante il quale il Corano divenne manifesto all’umanità. Un altro elemento della loro mistica è ‘hakk’, realtà, cioè dio.
Hakk – Muhammad – Ali, formano una realtà unitaria che esprime una sola verità, ma questo concetto non deve essere confuso con il concetto cristiano della trinità.
Tra le principali celebrazioni dei Bektashi c’è il sultan nevruz, che corrisponde all’equinozio di primavera. Il termine nawrúz deriva dall’unione di due antiche parole persiane e significa ‘nuovo giorno’…è un anno nuovo, un capodanno,un inizio… ed è anche il giorno del compleanno di Ali.
Ho potuto assistere a questa celebrazione (al rito vero e proprio hanno accesso solo gli uomini, le donne possono assistere dall’alto di una balconata), che culmina nel fachirismo nella città di Prizren, nel sud del Kosovo.
È impossibile spiegare quello che accade durante la festa: nessun senso di aspettativa è in grado di anticipare il miscuglio di sensazioni che arriveranno allo lo svolgersi del rito. Un rito antico, ancestrale….che comincia con lunghe, incomprensibili preghiere e che ad un certo punto si trasforma in danza, in ritmo serrato, in voci potenti….un vortice di fomento e adrenalina, di cori gutturali. All’apice di questo eccesso di gioia e testosterone, lo spillone è quasi necessario.
Il corpo si muove al comando dei tamburi, accompagna gli occhi sui sorrisi posseduti dei dervisci, le mani sudano, la stanchezza delle gambe accusata durante le precedenti ore di preghiera, svanisce ed ogni muscolo è in tensione, proiettato al centro della sala, che ondeggia composta e impazzita, totalmente in preda all’energia. Ma tutto l’insieme è ordinato, preciso….è l’adab, il comportamento appropriato, l’attegiamento da tenere nei confronti della cerimonia. Tutti i gesti rituali sono caratterizzati da movimenti altamente formali e densi di valore simbolico.
Lo sguardo dei bambini è così fiero che il sangue sembra solo un’innocente macchia fuori controllo…
E tutto si allenta finalmente quando il canto ritorna preghiera e l’estasi si trasforma in riflessione. È uno di quei momenti in cui la religione assume una valenza quasi sessuale, è un rituale orgasmico.
Mi chiedo cosa rimanga nella mente dei molti invitati ad assistere alla festa…rappresentanti diplomatici e dell’esercito, ambasciatori, personalità di vario tipo. Nella mia testa confusa ho la presunzione di immaginare che per me sarà diverso, perché in poche occasioni ho scattato così presa dall’assoluta sete di immagine, rapita dalla bellezza di un incontro tanto spirituale quanto carnale.
All’uscita l’aria è rilassata, viene servita a tutti gli ospiti una bevanda artigianale, che somiglia al sidro, alcuni fumano una sigaretta…nessuno si pulisce dal rivolo di sangue rimasto sulle guance. Lo shaykh ci saluta con una vigorosa stretta di mano, un sorriso autoritario e la parola ‘respecto’…di nuovo…un invito a non dimenticare.
Ancora non sapevo che tutto questo, di lì a poche ore, mi sarebbe apparso diverso, impallidito…quasi fuori fuoco.
Quando sono entrata nella tequia bektashi del campo rom di una città del nord, considerato il clima rilassato e il pungente odore di calzini che avevano visto troppe mattine, ho creduto di dover subire solo altre tre ore di composte, a me incomprensibili, preghiere….ma vista l’ospitalità e il permesso accordato a una donna non solo di rimanere ma anche di poter fotografare, ho chiesto ai miei pensieri di rilassarsi e trarre beneficio dal tempo che mi era stato concesso. Mi aspettavo quindi le solite due fasi di un rito sufi: quella di ascolto, di trance emozionale, indotta; e quella di danza collettiva, detta dhikr, condotta. Speravo nell’eventuale terza fase, il momento riservato alle pratiche fachiriche.
L’inizio, come da copione, è stato lungo.
Le persone battono a terra con le mani, in un profondo inchino, baciano il suolo e si rialzano, succede per molte volte consecutive. Nel sufismo questo gesto è l’inizio della trasformazione, la resurrezione dalle tombe, dal sonno dell’indifferenza. La preghiera che accompagna il gesto è parte in serbo, parte in albanese, parte in persiano, una litania monotono. Subito dopo la benedizione del cibo però la preghiera intona un ritmo che riconosco, un ritmo che si fa sempre più crescente, sempre più intenso. La cadenza inizia sulla parola ‘hu’ e sempre nella stessa parola ritorna per mantenere costante il ritmo.
Dice il maestro Nezih Uzel:
“ i dervisci mentre danzano, recitano in silenzio il nome di dio. Lo shaykh dice hu, uno dei suoi novantanove aggettivi: dice ‘dio’. Anche quando si respira, è come se si dicesse hu. Quindi in ogni istante si pronuncia il nome di dio. Anche se non si è dervisci, si dice ‘dio’ col respiro.”
C’è un cerchio centrale nella sala, formato da tutti i presenti, all’interno di questo cerchio ce n’è un altro, formato da quattro persone, che si muove in senso antiorario e segue dei movimenti molto precisi. Quello che sto vedendo mi ricorda i dervisci giranti della Turchia: nella danza dei dervisci la persona che arriva a trovarsi di fronte al vello fa un inchino, supera con tre passi la linea centrale della circonferenza e si volta indietro, trovandosi così faccia a faccia son il successivo compagno. Entrambi si guardano, entrambi guardano ‘la bellezza del mondo di dio negli occhi dell’altro’ e si inchinano l’uno all’altro.
Tutto questo non ha niente a che vedere con Prizren, con il rito cui avevo assistito la mattina, l’unica cosa che li accomuna veramente sono le parole identiche dei cori che accompagnano il rituale. Sembra una sciocchezza da dire, poche ore prima ero in una tequia pulita e ben gestita, i partecipanti al rito indossavano un abito e un cappello cerimoniale, l’husayni tac, c’erano degli invitati, ospiti illustri con posto riservato, hanno persino distribuito delle caramelle ai presenti…a guardare tutto questo da qui, da un campo nomadi di una città difficile, un posto dove quasi non respiro, una tequia ordinata certo, ma sul pulita non potrei garantire….da questo posto senza abiti particolari (con l’eccezione di poche persone che hanno preso qualcosa di corsa al nostro arrivo), dove vedo vestiti sporchi e lisi, tute da ginnastica, calzini bucati…a guardare tutto questo da qui non si può fare a meno di pensare che ciò a cui ho assistito la stessa mattina fosse più ad uso e consumo degli spettatori….autentico si, emozionante, non lo nego, ma più spettacolare nel senso di “pensato per un pubblico”. Come si può pensare diversamente? Se anche non fossimo stati presenti avrebbero festeggiato il sultan nevruz così, senza tonaca forse, ma esattamente così. Si capisce in questa folle danza, nei cori meno composti ma urlati con forza, nel prostarsi, quasi seppellirsi in se stessi, prima di infilzarsi con gli spilloni…un anziano quasi non si regge in piedi, eppure si inginocchia e si trafigge più volte e balla e canta.
Questa è una spinta diversa, un’energia diversa, siamo gli intrusi in un momento di intimità religiosa, di condivisione familiare….è questo ad essere autentico: che noi fossimo lì o meno, la nostra presenza non avrebbe fatto la differenza.
Non è casuale il collegamento con i più famosi ‘ dervisci giranti’, tanto visti in Turchia, i dervisci sono i ‘folli di dio’, praticano entrambi una forma di iniziazione mistica.
Alla fine del rito fachirico la sala è un’esplosione di gioia.
Lo shaykh ha il viso stanco ma soddisfatto, di una soddisfazione scintillante. Si muove verso il centro e comincia a girare su se stesso. Ruota senza sosta e l’ambiente circostante sparisce gradualmente dal suo campo visivo. In quel vortice la sensazione è quella di essere soli nella stanza, che sembra allargarsi all’infinito. È cosi che le stelle descrivono le loro orbite…
Le braccia tese, in fuori: il destro con il palmo della mano rivolto verso l’alto per “ricevere dal cielo”, il sinistro con le dita rivolte in giù per “dare alla terra”.
Ruota al centro del cerchio delle danze ed è un tutt’uno con il qutb (l’asse) che unisce la terra con il cielo sopra di lui.
Alla fine di questo secondo viaggio ‘bektashi respecto’ trova il suo senso completo: qualunque sia il mio credo, il mio taglio di capelli, la marca di miei jeans, la mia provenienza, sono stata accolta….la gioia è il potente messaggio per chi partecipa, la gioia è il potente messaggio per chi è ospite.
Ciò che rimane di me è un nome, il resto è Lui, Dio soltanto.”
Bektashi respcto. Si apriva con questa frase il viaggio di un anno fa in Kosovo, durante un incontro fortuito e assolutamente non sospetto del primo giorno di stordimento balcanico. Nella città di Kruja, vicino al discutibile castello della famiglia IskenderBeg, un uomo con un largo maglione ci invitava ad entrare in una sala dalle pareti verdi ricoperta di tappeti. Nel suo spiegarci chi fosse e dove ci trovassimo intercalava continuamente la frase “Bektashi respecto”. L’ha detta cosi tante volte che ben presto, durante il resto del viaggio, sarebbe diventata qualcosa di comico da ripetere nell’ambito goliardico del gruppo. All’epoca l’unica informazione che riuscii ad ottenere fu che i Bektashi sono una minoranza musulmana, di derivazione sufi.
La grande fioritura culturale degli ordini sufi, la loro poesia e la loro musica appartengono al passato, ma i loro riti si sono mantenuti vivi ancora oggi. La mistica sufi affonda le proprie radici tra i popoli nomadi della steppa. Credenti ‘on the road’, sono aperti nei confronti di tutte le religioni, come cercava di spiegare l’insistente “Bektashi respecto”. I sufi praticano la preghiera in movimento, fanno voto di povertà e si avvicinano a dio non mortificando il corpo ma attraverso il cibo, la danza e la gioia
Il viaggio di quest’anno invece prevede un incontro non casuale proprio con i Bektashi.
So qualcosa in più su di loro: l’ordine vero e proprio nasce alla fine del XV secolo, più di due secoli dopo la morte di Haji Bektash Veli, che ne è il fondatore. L’ordine ha inclinazioni marcatamente sciite. Recita infatti un poeta bektashi:
Ta ezel bezminden ikrâr eyliyen, şi’îleriz.
Bunda ol ikrâri tekrâr eyliyen, şi’îleriz.
Dal momento in cui l’eternità si è raccolta, siamo sciiti.
Qui, rendo ancora una volta questa confessione, siamo sciiti.
Il pensiero bektashi si riassume così: Ali Ibn Abi Talib, il genero del profeta Muhammad, occupa una posizione predominante nella loro spiritualità. Ali è visto come l’immagine speculare del divino, è il rivelatore dell’’esoterico’ Corano, mentre il profeta è visto come il veicolo mediante il quale il Corano divenne manifesto all’umanità. Un altro elemento della loro mistica è ‘hakk’, realtà, cioè dio.
Hakk – Muhammad – Ali, formano una realtà unitaria che esprime una sola verità, ma questo concetto non deve essere confuso con il concetto cristiano della trinità.
Tra le principali celebrazioni dei Bektashi c’è il sultan nevruz, che corrisponde all’equinozio di primavera. Il termine nawrúz deriva dall’unione di due antiche parole persiane e significa ‘nuovo giorno’…è un anno nuovo, un capodanno,un inizio… ed è anche il giorno del compleanno di Ali.
Ho potuto assistere a questa celebrazione (al rito vero e proprio hanno accesso solo gli uomini, le donne possono assistere dall’alto di una balconata), che culmina nel fachirismo nella città di Prizren, nel sud del Kosovo.
È impossibile spiegare quello che accade durante la festa: nessun senso di aspettativa è in grado di anticipare il miscuglio di sensazioni che arriveranno allo lo svolgersi del rito. Un rito antico, ancestrale….che comincia con lunghe, incomprensibili preghiere e che ad un certo punto si trasforma in danza, in ritmo serrato, in voci potenti….un vortice di fomento e adrenalina, di cori gutturali. All’apice di questo eccesso di gioia e testosterone, lo spillone è quasi necessario.
Il corpo si muove al comando dei tamburi, accompagna gli occhi sui sorrisi posseduti dei dervisci, le mani sudano, la stanchezza delle gambe accusata durante le precedenti ore di preghiera, svanisce ed ogni muscolo è in tensione, proiettato al centro della sala, che ondeggia composta e impazzita, totalmente in preda all’energia. Ma tutto l’insieme è ordinato, preciso….è l’adab, il comportamento appropriato, l’attegiamento da tenere nei confronti della cerimonia. Tutti i gesti rituali sono caratterizzati da movimenti altamente formali e densi di valore simbolico.
Lo sguardo dei bambini è così fiero che il sangue sembra solo un’innocente macchia fuori controllo…
E tutto si allenta finalmente quando il canto ritorna preghiera e l’estasi si trasforma in riflessione. È uno di quei momenti in cui la religione assume una valenza quasi sessuale, è un rituale orgasmico.
Mi chiedo cosa rimanga nella mente dei molti invitati ad assistere alla festa…rappresentanti diplomatici e dell’esercito, ambasciatori, personalità di vario tipo. Nella mia testa confusa ho la presunzione di immaginare che per me sarà diverso, perché in poche occasioni ho scattato così presa dall’assoluta sete di immagine, rapita dalla bellezza di un incontro tanto spirituale quanto carnale.
All’uscita l’aria è rilassata, viene servita a tutti gli ospiti una bevanda artigianale, che somiglia al sidro, alcuni fumano una sigaretta…nessuno si pulisce dal rivolo di sangue rimasto sulle guance. Lo shaykh ci saluta con una vigorosa stretta di mano, un sorriso autoritario e la parola ‘respecto’…di nuovo…un invito a non dimenticare.
Ancora non sapevo che tutto questo, di lì a poche ore, mi sarebbe apparso diverso, impallidito…quasi fuori fuoco.
Quando sono entrata nella tequia bektashi del campo rom di una città del nord, considerato il clima rilassato e il pungente odore di calzini che avevano visto troppe mattine, ho creduto di dover subire solo altre tre ore di composte, a me incomprensibili, preghiere….ma vista l’ospitalità e il permesso accordato a una donna non solo di rimanere ma anche di poter fotografare, ho chiesto ai miei pensieri di rilassarsi e trarre beneficio dal tempo che mi era stato concesso. Mi aspettavo quindi le solite due fasi di un rito sufi: quella di ascolto, di trance emozionale, indotta; e quella di danza collettiva, detta dhikr, condotta. Speravo nell’eventuale terza fase, il momento riservato alle pratiche fachiriche.
L’inizio, come da copione, è stato lungo.
Le persone battono a terra con le mani, in un profondo inchino, baciano il suolo e si rialzano, succede per molte volte consecutive. Nel sufismo questo gesto è l’inizio della trasformazione, la resurrezione dalle tombe, dal sonno dell’indifferenza. La preghiera che accompagna il gesto è parte in serbo, parte in albanese, parte in persiano, una litania monotono. Subito dopo la benedizione del cibo però la preghiera intona un ritmo che riconosco, un ritmo che si fa sempre più crescente, sempre più intenso. La cadenza inizia sulla parola ‘hu’ e sempre nella stessa parola ritorna per mantenere costante il ritmo.
Dice il maestro Nezih Uzel:
“ i dervisci mentre danzano, recitano in silenzio il nome di dio. Lo shaykh dice hu, uno dei suoi novantanove aggettivi: dice ‘dio’. Anche quando si respira, è come se si dicesse hu. Quindi in ogni istante si pronuncia il nome di dio. Anche se non si è dervisci, si dice ‘dio’ col respiro.”
C’è un cerchio centrale nella sala, formato da tutti i presenti, all’interno di questo cerchio ce n’è un altro, formato da quattro persone, che si muove in senso antiorario e segue dei movimenti molto precisi. Quello che sto vedendo mi ricorda i dervisci giranti della Turchia: nella danza dei dervisci la persona che arriva a trovarsi di fronte al vello fa un inchino, supera con tre passi la linea centrale della circonferenza e si volta indietro, trovandosi così faccia a faccia son il successivo compagno. Entrambi si guardano, entrambi guardano ‘la bellezza del mondo di dio negli occhi dell’altro’ e si inchinano l’uno all’altro.
Tutto questo non ha niente a che vedere con Prizren, con il rito cui avevo assistito la mattina, l’unica cosa che li accomuna veramente sono le parole identiche dei cori che accompagnano il rituale. Sembra una sciocchezza da dire, poche ore prima ero in una tequia pulita e ben gestita, i partecipanti al rito indossavano un abito e un cappello cerimoniale, l’husayni tac, c’erano degli invitati, ospiti illustri con posto riservato, hanno persino distribuito delle caramelle ai presenti…a guardare tutto questo da qui, da un campo nomadi di una città difficile, un posto dove quasi non respiro, una tequia ordinata certo, ma sul pulita non potrei garantire….da questo posto senza abiti particolari (con l’eccezione di poche persone che hanno preso qualcosa di corsa al nostro arrivo), dove vedo vestiti sporchi e lisi, tute da ginnastica, calzini bucati…a guardare tutto questo da qui non si può fare a meno di pensare che ciò a cui ho assistito la stessa mattina fosse più ad uso e consumo degli spettatori….autentico si, emozionante, non lo nego, ma più spettacolare nel senso di “pensato per un pubblico”. Come si può pensare diversamente? Se anche non fossimo stati presenti avrebbero festeggiato il sultan nevruz così, senza tonaca forse, ma esattamente così. Si capisce in questa folle danza, nei cori meno composti ma urlati con forza, nel prostarsi, quasi seppellirsi in se stessi, prima di infilzarsi con gli spilloni…un anziano quasi non si regge in piedi, eppure si inginocchia e si trafigge più volte e balla e canta.
Questa è una spinta diversa, un’energia diversa, siamo gli intrusi in un momento di intimità religiosa, di condivisione familiare….è questo ad essere autentico: che noi fossimo lì o meno, la nostra presenza non avrebbe fatto la differenza.
Non è casuale il collegamento con i più famosi ‘ dervisci giranti’, tanto visti in Turchia, i dervisci sono i ‘folli di dio’, praticano entrambi una forma di iniziazione mistica.
Alla fine del rito fachirico la sala è un’esplosione di gioia.
Lo shaykh ha il viso stanco ma soddisfatto, di una soddisfazione scintillante. Si muove verso il centro e comincia a girare su se stesso. Ruota senza sosta e l’ambiente circostante sparisce gradualmente dal suo campo visivo. In quel vortice la sensazione è quella di essere soli nella stanza, che sembra allargarsi all’infinito. È cosi che le stelle descrivono le loro orbite…
Le braccia tese, in fuori: il destro con il palmo della mano rivolto verso l’alto per “ricevere dal cielo”, il sinistro con le dita rivolte in giù per “dare alla terra”.
Ruota al centro del cerchio delle danze ed è un tutt’uno con il qutb (l’asse) che unisce la terra con il cielo sopra di lui.
Alla fine di questo secondo viaggio ‘bektashi respecto’ trova il suo senso completo: qualunque sia il mio credo, il mio taglio di capelli, la marca di miei jeans, la mia provenienza, sono stata accolta….la gioia è il potente messaggio per chi partecipa, la gioia è il potente messaggio per chi è ospite.